Da recenti ricerche1 emerge come sia in forte aumento il numero delle persone che hanno un approccio compulsivo o maniacale con l'attività fisica ricreativa: i cosiddetti Sport-dipendenti.L'attività fisica dovrebbe sanare mente e corpo, o perlomeno arrecare gioia, divertimento o avventura. Come tutte le medicine benefiche, può diventare, con un uso improprio, dannosa per la salute fisica e psichica. Può diventare una fissazione malsana.
Come ci fa notare la Psicologa ricercatrice Monaco2, non è l'eccesso di pratica sportiva a denotare uno "sport-maniaco", ma il tipo di approccio mentale del soggetto, che lo porta ad avere sintomi simili a quelli presenti nelle altre forme, più conosciute, di dipendenza. Come spesso succede, la qualificazione del problema non sta tanto nell'oggetto, quanto nel filtro soggettivo che la nostra mente applica nella percezione dell'oggetto-azione.
Posso scalare e allenarmi tutti i giorni, godendo serenamente delle piacevoli sensazioni che la natura e il movimento mi arreca, senza per questo sentire la necessità compulsiva di "dovere scalare". Neanche quando è fortemente collegato al raggiungimento di un obiettivo, l'eccesso di pratica risulta necessariamente malsano. Più a rischio sono coloro i quali percepiscono questo bisogno di fare attività come "fine a se stesso", necessario ma scollegato da obiettivi concreti e positivi.
In ogni caso, dunque, la "dipendenza da esercizio" non è solo un problema di quantità, nè è la frequenza delle sedute di allenamento a costituire il termometro per misurare quanto sia alta questa "febbre". Tutto questo, nella nostra disciplina, appare in maniera evidente e amplificata. La mia esperienza personale di trainer mi fa ipotizzare che la percentuale di questi "drogati da attività ", tra gli assidui praticanti della scalata, sia ancora più alta.
Questo per vari motivi.
Innanzitutto la scalata non è solo uno sport. E' molto di meno e molto di più. E' un'arte, e quindi ci si può drogare (quanti, dei migliori artisti dell'ultimo secolo, non si sono drogati?). E' uno sport, e quindi può esistere un numero (il grado), che rappresenta il limite da battere. Non è uno sport, e quindi si può compiere una performance senza controllo, senza regole o giudici, con la moglie che fa sicura in una sperduta parete delle alpi. E' uno sport, e dunque questa prestazione può essere riconosciuta e può portare sotto i riflettori dei media o anche solo delle piccole tribù locali. Non è uno sport, e dunque via alla creatività, alla libertà, alla competizione "solo con noi stessi". E' uno sport, e dunque vorremmo che in questa competizione tutti rispettassero le stesse regole, e non si toccassero quando fanno la parata, non lasciassero il secondo spit già moschettonato, non si facessero tirare un poco nelle sbandierate, non allungassero la catena per poi abbrancarla con la mano.
Per anni abbiamo preteso le cose buone del non-sport (libertà, creatività) e quelle dello sport (riconoscimento e gloria per i campioni, grado come numero quantificabile e misurabile, appagante e portatore di status anche per i dilettanti) senza voler pagare nulla del conto salato che paga chi fa il vero sport : giudici, regole, controlli, freddezza della misurazione, modelli statistici-matematici per determinare il grado, invalidamento delle prestazioni fatte in allenamento, invalidamento delle prestazioni su vie auto-tracciate, e molto altro ancora. Tutto questo avrebbe raffreddato con tonnellate di acqua gelata tutto il romanticismo della nostra nobile arte. Per anni abbiamo voluto e vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Questo dualismo sport-non sport ha favorito l'insorgere di fissazioni e nevrosi. Sfruttando l'assenza di controlli del "non sport", si sono potute avvicinare a questa disciplina molte personalità che, in un altro contesto e con regole predefinite, sarebbero state rifiutate. Il grado, che viene posto al di sopra di tutto, può essere raggiunto in qualunque modo e con qualunque mezzo. Il percorso verso la prestazione può essere completamente autogestito: alimentazione, rituali, tracciatura, orari, modalità, luogo, numero di tentativi, compagno. Tutto può essere architettato e adattato in funzione delle nostre insicurezze e debolezze. E questo favorisce un approccio compulsivo, se non malato, alla disciplina. Pensate solo a quanto può essere portatrice di fissazioni quella piccola ma importantissima libertà che ci prendiamo (considerando che non è uno sport) quando siamo noi a decidere quale sia il momento adatto di partire per una prestazione. Il corridore, avrà anche lui un po' di rituali, ma deve scattare al momento preciso del "bang". Noi possiamo friggere nell'ansia, addossarci scuse di ogni tipo, aspettare che non faccia troppo caldo nè troppo freddo, oppure chiuderci in una falesietta conosciuta e rassicurante e aspettare che la prestazione venga lí, da sola, il giorno in cui tutte le condizioni ottimali coincideranno.
Pensate a quante personalità borderline può catalizzare questa forma ibrida di sport-non sport, che promette la protezione rassicurante del non sport, senza però negare a nessuno (soprattutto a chi non le avrebbe mai potute conseguire nelle discipline regolamentari e regolamentete) piccole glorie del vero sport. Se la scalata restasse nell'ambito della "filosofia" e romanticismo, come lo yoga o il ........., non credo che sarebbe cosi nevrotizzante o catalizzatrice di nevrotici. E neppure se fosse solo sport. Il problema è che noi vogliamo che sia anche uno sport. Fingiamo che sia per noi stessi ma vogliamo che gli altri sappiano della nostra piccola, insignificante prestazione. Rifiutiamo altezzosi il "bang" di partenza, i controlli antidoping e anti-anoressia, un giudice che ci stressa in falesia ma chiediamo, anche, un qualche tipo di medaglia all'arrivo.
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Bibliografia
Bamber D., Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D., 2000, "It's exercise or nothing": a qualitativeanalysis of exercise dependence. In British Journal of Sports Medicine, 34, 423-430 Bomber D.,Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D., 2003, Diagnostic criteria for exercise dependence in women. In British Journal of Sports Medicine, 37, 393-400 Cascua S., 2004, Lo sport fa davvero bene alla salute? Quali sport scegliere: benefici e rischi, Edizioni Red, Milano. Davis C., 2000, Exercise abuse. In International Journal of Sport Psychology, 31, 278-289 De la Torre J., 1995. Mens sana in corpore sano, or exercise abuse? Clinical consideration. In Bulletin of the Menninger Clinic, 59, 15-31. M. Monaco, 2006, Sport non stop. La dipendenza dallo sport, in press
Fonti
1 Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Universita' di Siena e Dipartimento di Igiene dell'Universita' di Cagliari; Congresso nazionale di Psichiatria, Montesilvano2 M. Monaco, www.benessere.com
Come ci fa notare la Psicologa ricercatrice Monaco2, non è l'eccesso di pratica sportiva a denotare uno "sport-maniaco", ma il tipo di approccio mentale del soggetto, che lo porta ad avere sintomi simili a quelli presenti nelle altre forme, più conosciute, di dipendenza. Come spesso succede, la qualificazione del problema non sta tanto nell'oggetto, quanto nel filtro soggettivo che la nostra mente applica nella percezione dell'oggetto-azione.
Posso scalare e allenarmi tutti i giorni, godendo serenamente delle piacevoli sensazioni che la natura e il movimento mi arreca, senza per questo sentire la necessità compulsiva di "dovere scalare". Neanche quando è fortemente collegato al raggiungimento di un obiettivo, l'eccesso di pratica risulta necessariamente malsano. Più a rischio sono coloro i quali percepiscono questo bisogno di fare attività come "fine a se stesso", necessario ma scollegato da obiettivi concreti e positivi.
In ogni caso, dunque, la "dipendenza da esercizio" non è solo un problema di quantità, nè è la frequenza delle sedute di allenamento a costituire il termometro per misurare quanto sia alta questa "febbre". Tutto questo, nella nostra disciplina, appare in maniera evidente e amplificata. La mia esperienza personale di trainer mi fa ipotizzare che la percentuale di questi "drogati da attività ", tra gli assidui praticanti della scalata, sia ancora più alta.
Questo per vari motivi.
Innanzitutto la scalata non è solo uno sport. E' molto di meno e molto di più. E' un'arte, e quindi ci si può drogare (quanti, dei migliori artisti dell'ultimo secolo, non si sono drogati?). E' uno sport, e quindi può esistere un numero (il grado), che rappresenta il limite da battere. Non è uno sport, e quindi si può compiere una performance senza controllo, senza regole o giudici, con la moglie che fa sicura in una sperduta parete delle alpi. E' uno sport, e dunque questa prestazione può essere riconosciuta e può portare sotto i riflettori dei media o anche solo delle piccole tribù locali. Non è uno sport, e dunque via alla creatività, alla libertà, alla competizione "solo con noi stessi". E' uno sport, e dunque vorremmo che in questa competizione tutti rispettassero le stesse regole, e non si toccassero quando fanno la parata, non lasciassero il secondo spit già moschettonato, non si facessero tirare un poco nelle sbandierate, non allungassero la catena per poi abbrancarla con la mano.
Per anni abbiamo preteso le cose buone del non-sport (libertà, creatività) e quelle dello sport (riconoscimento e gloria per i campioni, grado come numero quantificabile e misurabile, appagante e portatore di status anche per i dilettanti) senza voler pagare nulla del conto salato che paga chi fa il vero sport : giudici, regole, controlli, freddezza della misurazione, modelli statistici-matematici per determinare il grado, invalidamento delle prestazioni fatte in allenamento, invalidamento delle prestazioni su vie auto-tracciate, e molto altro ancora. Tutto questo avrebbe raffreddato con tonnellate di acqua gelata tutto il romanticismo della nostra nobile arte. Per anni abbiamo voluto e vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Questo dualismo sport-non sport ha favorito l'insorgere di fissazioni e nevrosi. Sfruttando l'assenza di controlli del "non sport", si sono potute avvicinare a questa disciplina molte personalità che, in un altro contesto e con regole predefinite, sarebbero state rifiutate. Il grado, che viene posto al di sopra di tutto, può essere raggiunto in qualunque modo e con qualunque mezzo. Il percorso verso la prestazione può essere completamente autogestito: alimentazione, rituali, tracciatura, orari, modalità, luogo, numero di tentativi, compagno. Tutto può essere architettato e adattato in funzione delle nostre insicurezze e debolezze. E questo favorisce un approccio compulsivo, se non malato, alla disciplina. Pensate solo a quanto può essere portatrice di fissazioni quella piccola ma importantissima libertà che ci prendiamo (considerando che non è uno sport) quando siamo noi a decidere quale sia il momento adatto di partire per una prestazione. Il corridore, avrà anche lui un po' di rituali, ma deve scattare al momento preciso del "bang". Noi possiamo friggere nell'ansia, addossarci scuse di ogni tipo, aspettare che non faccia troppo caldo nè troppo freddo, oppure chiuderci in una falesietta conosciuta e rassicurante e aspettare che la prestazione venga lí, da sola, il giorno in cui tutte le condizioni ottimali coincideranno.
Pensate a quante personalità borderline può catalizzare questa forma ibrida di sport-non sport, che promette la protezione rassicurante del non sport, senza però negare a nessuno (soprattutto a chi non le avrebbe mai potute conseguire nelle discipline regolamentari e regolamentete) piccole glorie del vero sport. Se la scalata restasse nell'ambito della "filosofia" e romanticismo, come lo yoga o il ........., non credo che sarebbe cosi nevrotizzante o catalizzatrice di nevrotici. E neppure se fosse solo sport. Il problema è che noi vogliamo che sia anche uno sport. Fingiamo che sia per noi stessi ma vogliamo che gli altri sappiano della nostra piccola, insignificante prestazione. Rifiutiamo altezzosi il "bang" di partenza, i controlli antidoping e anti-anoressia, un giudice che ci stressa in falesia ma chiediamo, anche, un qualche tipo di medaglia all'arrivo.
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Bibliografia
Bamber D., Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D., 2000, "It's exercise or nothing": a qualitativeanalysis of exercise dependence. In British Journal of Sports Medicine, 34, 423-430 Bomber D.,Cockerill I.M., Rodgers S., Carroll D., 2003, Diagnostic criteria for exercise dependence in women. In British Journal of Sports Medicine, 37, 393-400 Cascua S., 2004, Lo sport fa davvero bene alla salute? Quali sport scegliere: benefici e rischi, Edizioni Red, Milano. Davis C., 2000, Exercise abuse. In International Journal of Sport Psychology, 31, 278-289 De la Torre J., 1995. Mens sana in corpore sano, or exercise abuse? Clinical consideration. In Bulletin of the Menninger Clinic, 59, 15-31. M. Monaco, 2006, Sport non stop. La dipendenza dallo sport, in press
Fonti
1 Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Universita' di Siena e Dipartimento di Igiene dell'Universita' di Cagliari; Congresso nazionale di Psichiatria, Montesilvano2 M. Monaco, www.benessere.com
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