È uscita "Blocca" la nuova guida delle falesie intorno Roma, di Luca Bucciarelli, Alvise Mario (guide alpine) e Alfredo Smargiassi (chiodatore e apritore di numerose vie e interi settori). La guida tra l'altro ha il pregio di censire numerose falesie che non erano presenti in nessuna edizione: La Segheria, La Fortezza, Varco Sabino, Madonna dei Balzi, Cesi, Regno dei ragni e altre ancora.
Qui a seguire un estratto da una mia postfaziome scritta per questa guida.
IL DUALISMO SPORT/NON SPORT
La scalata di falesia, come l'alpinismo, non è uno sport ma è _anche_ uno sport. Per questo non ci sono giudici, non ci sono controllori e neppure sanzioni. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimersi come meglio crede. Come in un piccolo mondo perfetto, le regole ci sono, certamente, ma sono regole di buon senso, autogenerate: il mondo della scalata è un microcosmo anarchico che si autoregola.
A chi piacerebbe un codice della strada adattato per la scalata? Divieto di saltare il rinvio. Dare la precedenza a chi sta provando la via per liberarla. Obbligo di usare il casco. Biglietto da pagare per andare in una falesia attrezzata. Giudice di falesia che deve vidimare la prestazione.
Tutto questo appare come un incubo, e la maggior parte di noi smetterebbe di praticare la libera arte della scalata, nella quale ognuno dovrebbe potersi esprimere come vuole.
L'anarchia, nondimeno, presenta vari problemi.
Nel nostro ambito, infatti, la maggior parte dei problemi etici scaturiscono dal fatto che la scalata è sia sport che non sport.
La scalata di falesia è un’arte, e quindi ci si può drogare (quanti, dei migliori artisti dell’ultimo secolo, non si sono drogati?). _E’ uno sport_, e quindi può esistere un numero (il grado), che rappresenta il limite da battere. _Non è uno sport_ e quindi si può compiere una performance senza controllo, senza regole o giudici, con la moglie che fa sicura in una sperduta parete delle alpi. _E’ uno sport_, e dunque questa prestazione può essere riconosciuta e può portare sotto i riflettori dei media o anche solo delle piccole tribù locali. _Non è uno sport_, e dunque via alla creatività, alla libertà, alla competizione “solo con noi stessi”. _E’ uno sport_, e dunque vorremmo che in questa competizione tutti rispettassero le stesse regole, e non si toccassero quando fanno la parata, non lasciassero il secondo spit già moschettonato, non si facessero tirare un poco nelle sbandierate, non allungassero la catena per poi abbrancarla con la mano, non usassero il vigliaccone per montare vie che non sono alla loro portata. Non usassero eccessive ginocchiere in neoprene.
Quando il fortissimo Megos fece il primo 9a a vista del mondo, su youtube esistevano vari video che mostravano proprio quella salita. Se la scalata fosse stata uno sport, quella salita non sarebbe stata omologata: l'unica scalata a vista possibile dovrebbe essere (se fosse uno sport) quella con atleti in isolamento e itinerari nuovi spittati per quella occasione.
Il problema è che per anni abbiamo preteso le cose buone del non-sport (libertà, creatività) e quelle buone dello sport (riconoscimento e gloria per i campioni, grado come numero quantificabile e misurabile, appagante e portatore di status anche per i dilettanti) senza voler pagare nulla del conto salato che paga chi fa il vero sport: giudici, regole, controlli, freddezza della misurazione, modelli statistici-matematici per determinare il grado, invalidamento delle prestazioni fatte in allenamento, invalidamento delle prestazioni su vie auto-tracciate e scavate, e molto altro ancora.
Un eccesso di "Sport" avrebbe raffreddato con tonnellate di acqua gelata tutto il romanticismo della nostra nobile arte.
Parliamoci chiaro: per anni abbiamo voluto e vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Questo dualismo sport-non sport ha favorito l’insorgere di fissazioni e nevrosi. Sfruttando l’assenza di controlli del “non sport”, si sono potute avvicinare a questa disciplina molte personalità che, in un altro contesto e con regole predefinite, sarebbero state rifiutate. Il grado, che viene posto al di sopra di tutto, può essere raggiunto in qualunque modo e con qualunque mezzo. Il percorso verso la prestazione può essere completamente autogestito: alimentazione, rituali, tracciatura, orari, modalità, luogo, numero di tentativi, compagno. Tutto può essere architettato e adattato in funzione delle nostre insicurezze e debolezze. E questo favorisce un approccio compulsivo, se non malato, alla disciplina. Pensate solo a quanto può essere portatrice di fissazioni quella piccola ma importantissima libertà che ci prendiamo (considerando che non è uno sport) quando siamo noi a decidere quale sia il momento adatto di partire per una prestazione. Il corridore, avrà anche lui un po’ di rituali, ma deve scattare al momento preciso del “bang”. Noi possiamo friggere nell’ansia, addossarci scuse di ogni tipo, aspettare che non faccia troppo caldo né troppo freddo, oppure chiuderci in una falesietta conosciuta e rassicurante e aspettare che la prestazione venga lì, da sola, il giorno in cui tutte le condizioni ottimali coincideranno.
Pensate a quante personalità borderline può catalizzare questa forma ibrida di sport-non sport. Se la scalata restasse nell’ambito della “filosofia” e romanticismo, come lo yoga o la danza ayurvedica, non credo che sarebbe così nevrotizzante o catalizzatrice di nevrotici. E neppure se fosse _soltanto_ uno sport. Il problema è che noi vogliamo che sia _anche_ uno sport.
Fingiamo che sia per noi stessi, ma vogliamo che gli altri sappiano della nostra piccola, insignificante prestazione. Rifiutiamo altezzosi il “bang” di partenza, i controlli antidoping e anti-anoressia, un giudice che ci stressa in falesia, ma pretendiamo anche un qualche tipo di medaglia all’arrivo.
Se la scalata fosse solo uno sport, la maggior parte delle prestazioni, su roccia, dovrebbero essere invalidate, anche solo per il fatto che sono state, tutte, salite _in allenamento e senza controlli nè giudici_, in condizioni che noi stessi, e non la gara o il giudice, abbiamo scelto.
Se la scalata fosse stata solo uno sport, non sarebbe stata il mio sport.
Estratto di un mio articolo pubblicato sulla nuova guida "Blocca!" Edizioni Natura Avventura, di Luca Bucciarelli Alvise Mario e Alfredo Smargiassi
Qui a seguire un estratto da una mia postfaziome scritta per questa guida.
IL DUALISMO SPORT/NON SPORT
La scalata di falesia, come l'alpinismo, non è uno sport ma è _anche_ uno sport. Per questo non ci sono giudici, non ci sono controllori e neppure sanzioni. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimersi come meglio crede. Come in un piccolo mondo perfetto, le regole ci sono, certamente, ma sono regole di buon senso, autogenerate: il mondo della scalata è un microcosmo anarchico che si autoregola.
A chi piacerebbe un codice della strada adattato per la scalata? Divieto di saltare il rinvio. Dare la precedenza a chi sta provando la via per liberarla. Obbligo di usare il casco. Biglietto da pagare per andare in una falesia attrezzata. Giudice di falesia che deve vidimare la prestazione.
Tutto questo appare come un incubo, e la maggior parte di noi smetterebbe di praticare la libera arte della scalata, nella quale ognuno dovrebbe potersi esprimere come vuole.
L'anarchia, nondimeno, presenta vari problemi.
Nel nostro ambito, infatti, la maggior parte dei problemi etici scaturiscono dal fatto che la scalata è sia sport che non sport.
La scalata di falesia è un’arte, e quindi ci si può drogare (quanti, dei migliori artisti dell’ultimo secolo, non si sono drogati?). _E’ uno sport_, e quindi può esistere un numero (il grado), che rappresenta il limite da battere. _Non è uno sport_ e quindi si può compiere una performance senza controllo, senza regole o giudici, con la moglie che fa sicura in una sperduta parete delle alpi. _E’ uno sport_, e dunque questa prestazione può essere riconosciuta e può portare sotto i riflettori dei media o anche solo delle piccole tribù locali. _Non è uno sport_, e dunque via alla creatività, alla libertà, alla competizione “solo con noi stessi”. _E’ uno sport_, e dunque vorremmo che in questa competizione tutti rispettassero le stesse regole, e non si toccassero quando fanno la parata, non lasciassero il secondo spit già moschettonato, non si facessero tirare un poco nelle sbandierate, non allungassero la catena per poi abbrancarla con la mano, non usassero il vigliaccone per montare vie che non sono alla loro portata. Non usassero eccessive ginocchiere in neoprene.
Quando il fortissimo Megos fece il primo 9a a vista del mondo, su youtube esistevano vari video che mostravano proprio quella salita. Se la scalata fosse stata uno sport, quella salita non sarebbe stata omologata: l'unica scalata a vista possibile dovrebbe essere (se fosse uno sport) quella con atleti in isolamento e itinerari nuovi spittati per quella occasione.
Il problema è che per anni abbiamo preteso le cose buone del non-sport (libertà, creatività) e quelle buone dello sport (riconoscimento e gloria per i campioni, grado come numero quantificabile e misurabile, appagante e portatore di status anche per i dilettanti) senza voler pagare nulla del conto salato che paga chi fa il vero sport: giudici, regole, controlli, freddezza della misurazione, modelli statistici-matematici per determinare il grado, invalidamento delle prestazioni fatte in allenamento, invalidamento delle prestazioni su vie auto-tracciate e scavate, e molto altro ancora.
Un eccesso di "Sport" avrebbe raffreddato con tonnellate di acqua gelata tutto il romanticismo della nostra nobile arte.
Parliamoci chiaro: per anni abbiamo voluto e vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca.
Questo dualismo sport-non sport ha favorito l’insorgere di fissazioni e nevrosi. Sfruttando l’assenza di controlli del “non sport”, si sono potute avvicinare a questa disciplina molte personalità che, in un altro contesto e con regole predefinite, sarebbero state rifiutate. Il grado, che viene posto al di sopra di tutto, può essere raggiunto in qualunque modo e con qualunque mezzo. Il percorso verso la prestazione può essere completamente autogestito: alimentazione, rituali, tracciatura, orari, modalità, luogo, numero di tentativi, compagno. Tutto può essere architettato e adattato in funzione delle nostre insicurezze e debolezze. E questo favorisce un approccio compulsivo, se non malato, alla disciplina. Pensate solo a quanto può essere portatrice di fissazioni quella piccola ma importantissima libertà che ci prendiamo (considerando che non è uno sport) quando siamo noi a decidere quale sia il momento adatto di partire per una prestazione. Il corridore, avrà anche lui un po’ di rituali, ma deve scattare al momento preciso del “bang”. Noi possiamo friggere nell’ansia, addossarci scuse di ogni tipo, aspettare che non faccia troppo caldo né troppo freddo, oppure chiuderci in una falesietta conosciuta e rassicurante e aspettare che la prestazione venga lì, da sola, il giorno in cui tutte le condizioni ottimali coincideranno.
Pensate a quante personalità borderline può catalizzare questa forma ibrida di sport-non sport. Se la scalata restasse nell’ambito della “filosofia” e romanticismo, come lo yoga o la danza ayurvedica, non credo che sarebbe così nevrotizzante o catalizzatrice di nevrotici. E neppure se fosse _soltanto_ uno sport. Il problema è che noi vogliamo che sia _anche_ uno sport.
Fingiamo che sia per noi stessi, ma vogliamo che gli altri sappiano della nostra piccola, insignificante prestazione. Rifiutiamo altezzosi il “bang” di partenza, i controlli antidoping e anti-anoressia, un giudice che ci stressa in falesia, ma pretendiamo anche un qualche tipo di medaglia all’arrivo.
Se la scalata fosse solo uno sport, la maggior parte delle prestazioni, su roccia, dovrebbero essere invalidate, anche solo per il fatto che sono state, tutte, salite _in allenamento e senza controlli nè giudici_, in condizioni che noi stessi, e non la gara o il giudice, abbiamo scelto.
Se la scalata fosse stata solo uno sport, non sarebbe stata il mio sport.
Estratto di un mio articolo pubblicato sulla nuova guida "Blocca!" Edizioni Natura Avventura, di Luca Bucciarelli Alvise Mario e Alfredo Smargiassi
Commenti
Utente eliminato
∙ 9 anni fa
Commento eliminato
Veltro 21
∙ 9 anni fa
...per scrivere una recensione su un opera d'arte un critico non deve chiedere un permesso all'artista, mi sembra molto pretenzioso pretendere che l'autore di una guida debba chiedere il permesso ai chiodatori per inserire la descrizione delle loro "creazioni".
A mio avviso chi chioda pareti e apre nuovi settori fa un'opera di indubbia utilità per tutta la comunità arrampicatoria, ma non può pretendere di diventare il "sovrano" della falesia.
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