La tecnica, intesa come ciò che riporta verso una elaborazione analitica e cosciente della successione dei movimenti, _è la cosa che maggiormente danneggia la progressione fluida_.
L'insegnamento della tecnica, perché sia efficace, deve contenere anche l'antidoto a se stessa, qualcosa che permetta di ricacciare a livello subcosciente i dannosi feedback analitici: la pedante ripetizione.
Ma lo scalatore, che è il paradigma del figlio dei tempi moderni, odia la pedante ripetizione perché la cosa che più teme e più fugge è la noia. Lo scalatore moderno vorrebbe vie diverse ogni giorno, esercizi sempre nuovi e divertenti, e mai sarebbe in grado di fermarsi a ripetere, come il pianista o il monaco shaolin, mille e mille volte la stessa scala.
Pedante ripetizione che non è superlavorato, non sono i tentativi e tentativi per riuscire a raggiungere un traguardo numerico, che implica una spinta autocompetitiva (e talvolta nevrotica) per superare qualcosa che non si riesca a fare.
Io parlo di un allenamento che includa la pedante ripetizione _anche di cose che riescono_, ma che devono riuscire meglio, che non apportano alcun upgrade numerico, ma che aumentano l'attenzione non giudicante verso il movimento, movimento che, al contrario, tipicamente viene consumato, bruciato, movimento che viene eseguito con il pensiero già rivolto verso la prossima via, il prossimo tentativo, il prossimo esercizio.
Quando scaliamo, ogni nostro movimento viene regolato e corretto innumerevoli volte, in maniera inconsapevole.
Se la punta del piede destro, mentre il sinistro è in latrale, è più alta o più bassa di pochi centimetri, questo potrà compromettere il bilanciamento e farci stancare o cadere.
Nessuno potrà dire, a priori, dove sia esattamente quel punto, solo il sesto senso della percezione cinestetica inconsapevole. Così come non possiamo calcolare quanto dobbiamo inclinare la bici in funzione della velocità con cui si affronta una curva: lo sappiamo e basta.
Nessuno può dire, a priori, quanto peso potrà scaricare il piede, spalmato su un minuscolo appoggio slabbrato prima che sfugga.
I continui aggiustamenti che il corpo deve fare, dai polpastrelli alla punta dei piedi, scaturiscono da una intelligenza (percezione) che non può essere deliberata né consapevole.
Il talento nella scalata è tanto muscolare quanto neurologico.
L'allenamento, nella scalata, dovrebbe essere più neurologico (cinestetico, propriocettivo, coordinativo e via dicendo) che muscolare.
La percezione cinestetica viene inibita dalla fatica (quando sono acciaiato scalo meno fluido), ma anche dalla paura, dalla eccessiva attivazione, dall'ansia da prestazione, dalla insicurezza.
Tutti i migliori scalatori di oggi hanno cominciato a scalare in età pre-adolescenziale e, per questo, hanno cementato un bagaglio di riflessi automatici che potremmo definire "di grazia". Per quanto riguarda l'apprendimento di schemi motori raffinati e di agilità, che richiedono automatismo e non possono essere eseguiti a livello consapevole, il grosso del lavoro si compie fino ai 10/11 anni. Dopo il grosso è fatto e se, da piccoli, avevate dei genitori apprensivi che vi inibivano in continuazione quando cercavate di salire su un albero o su un muretto, probabilmente rimarrete imbranati per tutta la vita.
Ma qualcosa si può fare comunque, anche chi comincia da grande ha grandi speranze di miglioramento (così come non è per nulla detto che cominciando da piccoli si diventa campioni – è, questa, una condizione ormai necessaria, ma non sufficiente.)
Per tutti, giovani e vecchi, l'allenamento migliore sarà quello che stimola un miglioramento della percezione cinestetica.
Dunque metri e metri di scalata, su terreni diversi, per imparare la tecnica e poi, soprattutto, per riuscire a dimenticarla, ricercando consapevolmente un progressivo allontanamento dalla consapevolezza.
Come spesso accade nell'arte e nello sport, sono i processi mentali inconsci a far scaturire lo stato di grazia.
Quando scalo bene non analizzo l'esecuzione dei movimenti: il corpo sembra muoversi secondo leggi proprie; non c'è auto-osservazione.
Quando scalo male, al contrario, cerco di avere il controllo cosciente di ogni movimento, come un pianista che volesse essere consapevole dell'azione di ogni singolo dito.
Un vero pianista, al contrario, manifesta la magia di quelle dieci dita che battono sui tasti del pianoforte, ognuna per conto suo, ognuna esercitando una pressione e un tempo diversi, mentre il cervello segue la melodia, cioè fa altro.
Quella magia verrebbe subito spenta da una consapevolezza analitica.
Bisogna allenare il corpo a precedere la mente, a decidere senza di lei.
È questo l'unico modo per compiere il miracolo di un corpo che danza su una roccia a strapiombo, che trae la spinta da se stesso, nonostante una forza di gravità contraria alla direzione del moto, come una vela che procede controvento.
Questa magia verrebbe spenta dal pensiero cosciente, perché la bellezza è sempre automatica, così come la donna più bella è quella che non mostra la consapevolezza della propria bellezza.
Quindici anni fa, intitolavo il mio primo articolo su jollypower.com "Penso, dunque cado".
Per allenare tutto questo è utile fare molte vie sulla roccia vera, ma non troppo facili.
Infatti uno dei falsi miti, ripetuto da molti allenatori, per cercare di risolvere problemi di eccessiva contrazione, è quello di proporre all'allievo metri e metri di vie troppo facili. Questo è errato per vari motivi:
1)Nella maggior parte dei casi la scalata contratta è dovuta a un eccesso di controllo. Fino a una certa soglia di difficoltà (vie molto facili) l'allievo scala bene perché ha il controllo e si sente sicuro al 100% su ogni movimento. Al superamento di una certa soglia, il decadimento della fluidità non è graduale, ma precipita drasticamente: l'allievo non completa più il movimento e tutte le sue articolazioni, tutte, dalla caviglia al collo, ma soprattutto le anche e le spalle, si bloccano, come se scattasse un meccanismo di sicurezza, un limitatore che riduce il movimento a pochissimi timidi gradi di escursione. Chi scala ingessato, in genere, sa scalare; ma lo sa fare solo su gradi molto bassi, dunque deve cercare di innalzare questa soglia.
2)Uno stimolo troppo blando non crea stress sufficiente per la sovracompensazione, fa rimanere nella zona di comfort, e l'organismo non sviluppa quella iperreazione che permette di approdare a un livello superiore.
Un eccesso di superlavorato può essere dannoso per questo tipo di allenamento su coordinazione - emozione - cinestetica - fluidità etc.
Il livello giusto sul quale bisognerebbe allenarsi è soggettivo, ma approssimativamente si può definire così: _eseguire molte vie della massima difficoltà tale che non necessitino di un lavorato medio o lungo_.
Ponendosi come obbiettivo la esecuzione corretta del movimento e non solo la riuscita ad ogni costo. Perseguire, senza sforzarsi di ottenerla, la sensazione di rilassamento, applicando sulle prese solo la forza necessaria.
Ricordarsi di espirare mentre si fa un passaggio difficile o una chiusura: l' espirazione non è automatica, se ci si ricorda di buttare fuori l'aria, la inspirazione avviene di conseguenza. È per questo motivo che i top climber urlano nei video, per ricordarsi di svuotare i polmoni.
Quando possibile, rilassare braccia collo schiena. Sentire la tensione che defluisce verso gambe e piedi, ricercare un movimento continuo, rotondo, non spezzato, non a scatti, non far sbattere il piede quando appoggia, allontanare un poco il bacino quando si muovono le gambe, avvicinarlo quando si va su con le mani. Cercare di essere mobili su tutte le articolazioni e in particolare cercare di togliere rigidità alle anche, sentendo lo spostamento del baricentro sia di lato (su un piano parallelo alla parete) sia fuori/ dentro, sia in rotazione.
Percepire il ritmo, velocizzando dove è più difficile, rallentando per riposare dove è più facile.
Cercare i primi due appoggi su un asse centrale rispetto alla mano che tiene, e posizionarci il piede "in spalmo", eseguendo una flessione dorsale della caviglia prima di poggiare l'avampiede (portare la punta del piede verso l'alto e il tallone verso il basso), nello stesso momento in cui allontana un poco il sedere dalla parete.
Dosare le stretta, stringere il meno possibile le prese, evitare le contrazioni eccessive, non solo della mano, ma del corpo in generale.
Come al solito concludo il capitolo promettendo, nei prossimi, delle soluzioni pratiche, e cercando di sfatare alcuni falsi luoghi comuni:
1)Non è vero che bisogna stare sempre appiccicati alla parete. Al contrario, chi scala bene, da Emilio Comici in poi, allontana il sedere quando muove le gambe e avvicina la pancia alla roccia _simultaneamente_ al movimento della mano che va a cercare l'appiglio. (_mentre_ la pancia va dentro, la mano muove. E non : _prima_ appiccico la pancia alla parete e poi muovo la mano)
2)Non è vero che le braccia debbano essere sempre il più possibile distese: l'articolazione del gomito deve essere mobile, e potersi sbloccare e bloccare. Solo deve farlo _dopo_ che sia partita la spinta di gambe pancia e spalle. Il gomito dovrebbe spostare un corpo _che è già in movimento_, come il sollevatore di pesi, che piega i gomiti per girare al petto il bilanciere solo dopo che è avvenuto lo stacco, in maniera dinamica, sfruttando l'istante in cui la barra è senza peso.
L'insegnamento della tecnica, perché sia efficace, deve contenere anche l'antidoto a se stessa, qualcosa che permetta di ricacciare a livello subcosciente i dannosi feedback analitici: la pedante ripetizione.
Ma lo scalatore, che è il paradigma del figlio dei tempi moderni, odia la pedante ripetizione perché la cosa che più teme e più fugge è la noia. Lo scalatore moderno vorrebbe vie diverse ogni giorno, esercizi sempre nuovi e divertenti, e mai sarebbe in grado di fermarsi a ripetere, come il pianista o il monaco shaolin, mille e mille volte la stessa scala.
Pedante ripetizione che non è superlavorato, non sono i tentativi e tentativi per riuscire a raggiungere un traguardo numerico, che implica una spinta autocompetitiva (e talvolta nevrotica) per superare qualcosa che non si riesca a fare.
Io parlo di un allenamento che includa la pedante ripetizione _anche di cose che riescono_, ma che devono riuscire meglio, che non apportano alcun upgrade numerico, ma che aumentano l'attenzione non giudicante verso il movimento, movimento che, al contrario, tipicamente viene consumato, bruciato, movimento che viene eseguito con il pensiero già rivolto verso la prossima via, il prossimo tentativo, il prossimo esercizio.
Quando scaliamo, ogni nostro movimento viene regolato e corretto innumerevoli volte, in maniera inconsapevole.
Se la punta del piede destro, mentre il sinistro è in latrale, è più alta o più bassa di pochi centimetri, questo potrà compromettere il bilanciamento e farci stancare o cadere.
Nessuno potrà dire, a priori, dove sia esattamente quel punto, solo il sesto senso della percezione cinestetica inconsapevole. Così come non possiamo calcolare quanto dobbiamo inclinare la bici in funzione della velocità con cui si affronta una curva: lo sappiamo e basta.
Nessuno può dire, a priori, quanto peso potrà scaricare il piede, spalmato su un minuscolo appoggio slabbrato prima che sfugga.
I continui aggiustamenti che il corpo deve fare, dai polpastrelli alla punta dei piedi, scaturiscono da una intelligenza (percezione) che non può essere deliberata né consapevole.
Il talento nella scalata è tanto muscolare quanto neurologico.
L'allenamento, nella scalata, dovrebbe essere più neurologico (cinestetico, propriocettivo, coordinativo e via dicendo) che muscolare.
La percezione cinestetica viene inibita dalla fatica (quando sono acciaiato scalo meno fluido), ma anche dalla paura, dalla eccessiva attivazione, dall'ansia da prestazione, dalla insicurezza.
Tutti i migliori scalatori di oggi hanno cominciato a scalare in età pre-adolescenziale e, per questo, hanno cementato un bagaglio di riflessi automatici che potremmo definire "di grazia". Per quanto riguarda l'apprendimento di schemi motori raffinati e di agilità, che richiedono automatismo e non possono essere eseguiti a livello consapevole, il grosso del lavoro si compie fino ai 10/11 anni. Dopo il grosso è fatto e se, da piccoli, avevate dei genitori apprensivi che vi inibivano in continuazione quando cercavate di salire su un albero o su un muretto, probabilmente rimarrete imbranati per tutta la vita.
Ma qualcosa si può fare comunque, anche chi comincia da grande ha grandi speranze di miglioramento (così come non è per nulla detto che cominciando da piccoli si diventa campioni – è, questa, una condizione ormai necessaria, ma non sufficiente.)
Per tutti, giovani e vecchi, l'allenamento migliore sarà quello che stimola un miglioramento della percezione cinestetica.
Dunque metri e metri di scalata, su terreni diversi, per imparare la tecnica e poi, soprattutto, per riuscire a dimenticarla, ricercando consapevolmente un progressivo allontanamento dalla consapevolezza.
Come spesso accade nell'arte e nello sport, sono i processi mentali inconsci a far scaturire lo stato di grazia.
Quando scalo bene non analizzo l'esecuzione dei movimenti: il corpo sembra muoversi secondo leggi proprie; non c'è auto-osservazione.
Quando scalo male, al contrario, cerco di avere il controllo cosciente di ogni movimento, come un pianista che volesse essere consapevole dell'azione di ogni singolo dito.
Un vero pianista, al contrario, manifesta la magia di quelle dieci dita che battono sui tasti del pianoforte, ognuna per conto suo, ognuna esercitando una pressione e un tempo diversi, mentre il cervello segue la melodia, cioè fa altro.
Quella magia verrebbe subito spenta da una consapevolezza analitica.
Bisogna allenare il corpo a precedere la mente, a decidere senza di lei.
È questo l'unico modo per compiere il miracolo di un corpo che danza su una roccia a strapiombo, che trae la spinta da se stesso, nonostante una forza di gravità contraria alla direzione del moto, come una vela che procede controvento.
Questa magia verrebbe spenta dal pensiero cosciente, perché la bellezza è sempre automatica, così come la donna più bella è quella che non mostra la consapevolezza della propria bellezza.
Quindici anni fa, intitolavo il mio primo articolo su jollypower.com "Penso, dunque cado".
Per allenare tutto questo è utile fare molte vie sulla roccia vera, ma non troppo facili.
Infatti uno dei falsi miti, ripetuto da molti allenatori, per cercare di risolvere problemi di eccessiva contrazione, è quello di proporre all'allievo metri e metri di vie troppo facili. Questo è errato per vari motivi:
1)Nella maggior parte dei casi la scalata contratta è dovuta a un eccesso di controllo. Fino a una certa soglia di difficoltà (vie molto facili) l'allievo scala bene perché ha il controllo e si sente sicuro al 100% su ogni movimento. Al superamento di una certa soglia, il decadimento della fluidità non è graduale, ma precipita drasticamente: l'allievo non completa più il movimento e tutte le sue articolazioni, tutte, dalla caviglia al collo, ma soprattutto le anche e le spalle, si bloccano, come se scattasse un meccanismo di sicurezza, un limitatore che riduce il movimento a pochissimi timidi gradi di escursione. Chi scala ingessato, in genere, sa scalare; ma lo sa fare solo su gradi molto bassi, dunque deve cercare di innalzare questa soglia.
2)Uno stimolo troppo blando non crea stress sufficiente per la sovracompensazione, fa rimanere nella zona di comfort, e l'organismo non sviluppa quella iperreazione che permette di approdare a un livello superiore.
Un eccesso di superlavorato può essere dannoso per questo tipo di allenamento su coordinazione - emozione - cinestetica - fluidità etc.
Il livello giusto sul quale bisognerebbe allenarsi è soggettivo, ma approssimativamente si può definire così: _eseguire molte vie della massima difficoltà tale che non necessitino di un lavorato medio o lungo_.
Ponendosi come obbiettivo la esecuzione corretta del movimento e non solo la riuscita ad ogni costo. Perseguire, senza sforzarsi di ottenerla, la sensazione di rilassamento, applicando sulle prese solo la forza necessaria.
Ricordarsi di espirare mentre si fa un passaggio difficile o una chiusura: l' espirazione non è automatica, se ci si ricorda di buttare fuori l'aria, la inspirazione avviene di conseguenza. È per questo motivo che i top climber urlano nei video, per ricordarsi di svuotare i polmoni.
Quando possibile, rilassare braccia collo schiena. Sentire la tensione che defluisce verso gambe e piedi, ricercare un movimento continuo, rotondo, non spezzato, non a scatti, non far sbattere il piede quando appoggia, allontanare un poco il bacino quando si muovono le gambe, avvicinarlo quando si va su con le mani. Cercare di essere mobili su tutte le articolazioni e in particolare cercare di togliere rigidità alle anche, sentendo lo spostamento del baricentro sia di lato (su un piano parallelo alla parete) sia fuori/ dentro, sia in rotazione.
Percepire il ritmo, velocizzando dove è più difficile, rallentando per riposare dove è più facile.
Cercare i primi due appoggi su un asse centrale rispetto alla mano che tiene, e posizionarci il piede "in spalmo", eseguendo una flessione dorsale della caviglia prima di poggiare l'avampiede (portare la punta del piede verso l'alto e il tallone verso il basso), nello stesso momento in cui allontana un poco il sedere dalla parete.
Dosare le stretta, stringere il meno possibile le prese, evitare le contrazioni eccessive, non solo della mano, ma del corpo in generale.
Come al solito concludo il capitolo promettendo, nei prossimi, delle soluzioni pratiche, e cercando di sfatare alcuni falsi luoghi comuni:
1)Non è vero che bisogna stare sempre appiccicati alla parete. Al contrario, chi scala bene, da Emilio Comici in poi, allontana il sedere quando muove le gambe e avvicina la pancia alla roccia _simultaneamente_ al movimento della mano che va a cercare l'appiglio. (_mentre_ la pancia va dentro, la mano muove. E non : _prima_ appiccico la pancia alla parete e poi muovo la mano)
2)Non è vero che le braccia debbano essere sempre il più possibile distese: l'articolazione del gomito deve essere mobile, e potersi sbloccare e bloccare. Solo deve farlo _dopo_ che sia partita la spinta di gambe pancia e spalle. Il gomito dovrebbe spostare un corpo _che è già in movimento_, come il sollevatore di pesi, che piega i gomiti per girare al petto il bilanciere solo dopo che è avvenuto lo stacco, in maniera dinamica, sfruttando l'istante in cui la barra è senza peso.