Anche se è uno scenario terribile, c'è la possibilità che la nostra mente sia solo un mazzo di neuroni, che l'anima non esista e che le emozioni non siano altro che algoritmi. La differenza tra la mente umana e le macchine non è certo l'intelligenza: tra pochi decenni anche quelle poche abilità nelle quali siamo ancora superiori saranno surclassaste dai software. La vera differenza è la consapevolezza, che (probabilmente) i robot non raggiungeranno mai.
Ma è cosi importante? O la coscienza è solo una piccola imperfezione, un rumore rimasto dopo milioni di anni di evoluzione?
In fondo la maggior parte delle cose che facciamo (alcuni autori dicono il 99%) avvengono in maniera inconsapevole: respiriamo, palpitiamo, camminiamo, sudiamo, secerniamo, inchiodiamo se un gatto attraversa la strada, trasecoliamo, eccetera, in maniera automatica.
Tutto ciò che è veramente potente e creativo, dentro di noi, scaturisce dal magma oscuro dell'inconscio, quel mondo sommerso, si, ma molto più vasto della piccola punta emersa di coscienza.
La consapevolezza ci limita, ci frena, ci rende meno efficienti.
Provate a parlare cercando di essere consapevoli di ogni singola lettera e di ogni parola che compone il flusso verbale: sembrerete dei deficienti. O scrivere. Immaginate un pianista che cercasse di essere attento al movimento di ogni singolo dito, che disastro sarebbe; di quanti gatti o pedoni avreste ucciso se non aveste inchiodato in automatico e di quante palle non avreste preso al volo giocando. Avete mai provato la famosa "camminata consapevole" di Tich Nhât Hanh? Fatelo, e sembrerete burattini.
I grandi atleti, musicisti, poeti, scrittori, oratori, procedono in automatico, senza la mediazione lenta e costosa della parte analitica e consapevole del cervello.
La consapevolezza comporta un ritardo che rende impossibile o quantomeno goffa e maldestra l'esecuzione della maggior parte delle attività umane, figuriamoci la scalata.
Di certo la grazia è priva di autocoscienza.
Quando siamo consapevoli, siamo dei "ritardati". Nel senso letterale del termine, infatti è dimostrato come i feedback automatici necessitino al massimo 100 millisecondi mentre la consapevolezza comporta più di mezzo secondo di ritardo per ogni azione. Un tempo enorme (Libet e altri).
Perché, allora, tutti questi modaioli blablabla sulla mindfulness? Ha senso la (anche questa di moda) mindfulness applicata allo sport?
E’ facile dimostrare che se sono consapevole, mi acciaio: uno dei motivi per cui ci acciaiamo (più nordico "ghisiamo", pumping in inglese) è dovuto proprio a un eccesso di consapevolezza. I feedback di controllo della tensione muscolare dovrebbero essere automatici. Cioè dovrebbe arrivare, in maniera inconsapevole, il segnale che stiamo stringendo troppo le prese e che possiamo mollare un po'. In questo modo la tensione isometrica massimale si modula e si evita il "pumping", si contraggono solo i muscoli che servono, si alterna in maniera sinergica contrazione e decontrazione tra agonisti e antagonisti. Chi si acciaia di più, in genere, tenta una regolazione volontaria e consapevole, dunque lenta e inefficiente.
Come diceva Bruce Lee "La coscienza dell'io è il maggior ostacolo alla esecuzione di qualunque azione fisica", e ancora: "l'arte raggiunge la massima altezza quando è priva di autocoscienza".
Se date veramente retta al vostro istruttore di Pilates (si, anche questo basato sulla consapevolezza, quindi molto di moda) e tentate di avere un controllo volontario e attento su ogni muscolo in azione, diventerete dei "ritardati".
Al di là dei blablabla New Age, se date veramente retta a Tich Nhât Hanh, e tentate di scalare in maniera totalmente consapevole, ebbene, sembrerete Pinocchio.
Nello sport, nella musica, nella creatività e in moltissimi aspetti della vita che richiedono efficenza, l'attenzione consapevole è propria del principiante "ritardato" (in senso di ritardo tra feedback e risposta).
Sono stato ridondante, lo so, ma era per accompagnarvi per mano e strattonarvi fuori da quel pensiero fricchettone dominante che vede tutto attraverso il filtro mindfulness e consapevolezza e attenzione non giudicante.
Però.
E’ pur vero che devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza.
Dove sta allora la vera funzione della mindfulness?
Innanzitutto sta nel fatto che la felicità è racchiusa unicamente dentro quelle piccole, insignificanti, gocce di consapevolezza (e ti pare poco).
Secondo, se è vero che l'obiettivo è la grazia automatica, la pratica per raggiungerla (con la ripetizione di esercizi) dovrà essere consapevole.
Ma lo scalatore, che è il paradigma del figlio dei tempi moderni, odia la pedante (e consapevole) ripetizione perché la cosa che più teme e più fugge è la noia. Lo scalatore moderno vorrebbe vie diverse ogni giorno, esercizi sempre nuovi e divertenti, e non è quasi mai in grado di fermarsi a ripetere, come il pianista o il monaco shaolin, mille e mille volte lo stesso esercizio. Pedante ripetizione che non è superlavorato, non sono i tentativi e tentativi per riuscire a raggiungere un traguardo numerico, che implica una spinta autocompetitiva (e talvolta nevrotica) per superare qualcosa che non si riesce a fare. Io parlo di un allenamento che includa la pedante ripetizione anche di cose che riescono, ma che devono riuscire meglio, che non apportano alcun upgrade numerico, ma che favoriscono questo passaggio da conscio (leggi: legnoso, costoso, inefficiente) a inconscio (leggi: veloce, fluido, efficiente) ripetizioni che, al contrario, tipicamente vengono consumate, bruciate, movimenti che vengono eseguiti con il pensiero già rivolto verso la prossima via, il prossimo tentativo, il prossimo esercizio.
A questo serve la consapevolezza nello sport: a costruire il cammino verso la inconsapevolezza.
Al "no-mente" del samurai ci si arriva solo dopo un lungo percorso di presenza mentale.
Devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza.
Come spesso accade quando si usano parole per descrivere concetti non facilmente verbalizzabili, il paradosso può essere di aiuto, come in un Koan buddista.
Estratto dalla rivista Up-Climbing n° 4, Versante Sud edizioni. Bimestrale, in ogni numero è presente un mio articolo.
Ma è cosi importante? O la coscienza è solo una piccola imperfezione, un rumore rimasto dopo milioni di anni di evoluzione?
In fondo la maggior parte delle cose che facciamo (alcuni autori dicono il 99%) avvengono in maniera inconsapevole: respiriamo, palpitiamo, camminiamo, sudiamo, secerniamo, inchiodiamo se un gatto attraversa la strada, trasecoliamo, eccetera, in maniera automatica.
Tutto ciò che è veramente potente e creativo, dentro di noi, scaturisce dal magma oscuro dell'inconscio, quel mondo sommerso, si, ma molto più vasto della piccola punta emersa di coscienza.
La consapevolezza ci limita, ci frena, ci rende meno efficienti.
Provate a parlare cercando di essere consapevoli di ogni singola lettera e di ogni parola che compone il flusso verbale: sembrerete dei deficienti. O scrivere. Immaginate un pianista che cercasse di essere attento al movimento di ogni singolo dito, che disastro sarebbe; di quanti gatti o pedoni avreste ucciso se non aveste inchiodato in automatico e di quante palle non avreste preso al volo giocando. Avete mai provato la famosa "camminata consapevole" di Tich Nhât Hanh? Fatelo, e sembrerete burattini.
I grandi atleti, musicisti, poeti, scrittori, oratori, procedono in automatico, senza la mediazione lenta e costosa della parte analitica e consapevole del cervello.
La consapevolezza comporta un ritardo che rende impossibile o quantomeno goffa e maldestra l'esecuzione della maggior parte delle attività umane, figuriamoci la scalata.
Di certo la grazia è priva di autocoscienza.
Quando siamo consapevoli, siamo dei "ritardati". Nel senso letterale del termine, infatti è dimostrato come i feedback automatici necessitino al massimo 100 millisecondi mentre la consapevolezza comporta più di mezzo secondo di ritardo per ogni azione. Un tempo enorme (Libet e altri).
Perché, allora, tutti questi modaioli blablabla sulla mindfulness? Ha senso la (anche questa di moda) mindfulness applicata allo sport?
E’ facile dimostrare che se sono consapevole, mi acciaio: uno dei motivi per cui ci acciaiamo (più nordico "ghisiamo", pumping in inglese) è dovuto proprio a un eccesso di consapevolezza. I feedback di controllo della tensione muscolare dovrebbero essere automatici. Cioè dovrebbe arrivare, in maniera inconsapevole, il segnale che stiamo stringendo troppo le prese e che possiamo mollare un po'. In questo modo la tensione isometrica massimale si modula e si evita il "pumping", si contraggono solo i muscoli che servono, si alterna in maniera sinergica contrazione e decontrazione tra agonisti e antagonisti. Chi si acciaia di più, in genere, tenta una regolazione volontaria e consapevole, dunque lenta e inefficiente.
Come diceva Bruce Lee "La coscienza dell'io è il maggior ostacolo alla esecuzione di qualunque azione fisica", e ancora: "l'arte raggiunge la massima altezza quando è priva di autocoscienza".
Se date veramente retta al vostro istruttore di Pilates (si, anche questo basato sulla consapevolezza, quindi molto di moda) e tentate di avere un controllo volontario e attento su ogni muscolo in azione, diventerete dei "ritardati".
Al di là dei blablabla New Age, se date veramente retta a Tich Nhât Hanh, e tentate di scalare in maniera totalmente consapevole, ebbene, sembrerete Pinocchio.
Nello sport, nella musica, nella creatività e in moltissimi aspetti della vita che richiedono efficenza, l'attenzione consapevole è propria del principiante "ritardato" (in senso di ritardo tra feedback e risposta).
Sono stato ridondante, lo so, ma era per accompagnarvi per mano e strattonarvi fuori da quel pensiero fricchettone dominante che vede tutto attraverso il filtro mindfulness e consapevolezza e attenzione non giudicante.
Però.
E’ pur vero che devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza.
Dove sta allora la vera funzione della mindfulness?
Innanzitutto sta nel fatto che la felicità è racchiusa unicamente dentro quelle piccole, insignificanti, gocce di consapevolezza (e ti pare poco).
Secondo, se è vero che l'obiettivo è la grazia automatica, la pratica per raggiungerla (con la ripetizione di esercizi) dovrà essere consapevole.
Ma lo scalatore, che è il paradigma del figlio dei tempi moderni, odia la pedante (e consapevole) ripetizione perché la cosa che più teme e più fugge è la noia. Lo scalatore moderno vorrebbe vie diverse ogni giorno, esercizi sempre nuovi e divertenti, e non è quasi mai in grado di fermarsi a ripetere, come il pianista o il monaco shaolin, mille e mille volte lo stesso esercizio. Pedante ripetizione che non è superlavorato, non sono i tentativi e tentativi per riuscire a raggiungere un traguardo numerico, che implica una spinta autocompetitiva (e talvolta nevrotica) per superare qualcosa che non si riesce a fare. Io parlo di un allenamento che includa la pedante ripetizione anche di cose che riescono, ma che devono riuscire meglio, che non apportano alcun upgrade numerico, ma che favoriscono questo passaggio da conscio (leggi: legnoso, costoso, inefficiente) a inconscio (leggi: veloce, fluido, efficiente) ripetizioni che, al contrario, tipicamente vengono consumate, bruciate, movimenti che vengono eseguiti con il pensiero già rivolto verso la prossima via, il prossimo tentativo, il prossimo esercizio.
A questo serve la consapevolezza nello sport: a costruire il cammino verso la inconsapevolezza.
Al "no-mente" del samurai ci si arriva solo dopo un lungo percorso di presenza mentale.
Devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza.
Come spesso accade quando si usano parole per descrivere concetti non facilmente verbalizzabili, il paradosso può essere di aiuto, come in un Koan buddista.
Estratto dalla rivista Up-Climbing n° 4, Versante Sud edizioni. Bimestrale, in ogni numero è presente un mio articolo.
Commenti
Federico Forte
∙ 5 anni fa
Grande Jolly!!!
Complimenti!! Un altro bell'articolo interessantissimo da seguire ed approfondire.... Il cervello, la nostra mente.... Cosa c'è di più meraviglioso e allo stesso tempo (per ora) misterioso?!? Grazie per il contributo scritto, come sempre per me, in maniera super scorrevole
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