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Solcare il mare all’insaputa del cielo

“L’uomo scopre la libertà nel momento in cui cessa di pensare all’effetto che egli esercita o che eserciterà sugli altri.” Bruce Lee

Ma quanto è difficile tutto questo! Quanto è difficile fregarsene di far bella o cattiva figura, fregarsene di risultare antipatico, non gioire troppo nell’essere apprezzato o non dispiacersi nel venire deriso.
Ma questa, invece, è la strada per migliorarsi nella scalata.
La preoccupazione di non essere considerati dall’ambiente che ci circonda è enorme.
Jek è molto bravo in palestra; in allenamento indoor il suo movimento è fluido, rotondo, la sua forza è esplosiva ma anche efficace. Ma il suo vero obiettivo è la scalata su roccia.
Quando si sposta in falesia, Jek si trasforma: si avvinghia alle prese, tituba, contrae i muscoli allo spasimo anche laddove non serve, dissipa e fallisce su vie che i suoi amici - molto più deboli di lui- usano per riscaldarsi. Il grado assurge a “status” e definisce una gerarchia; la paura di essere deriso aumenta (“hai visto Jek...Si è appeso sul 6a”).
A questo punto Jek decide di scalare solo in falesie dove conosce a memoria le vie e sceglie di scalare soltanto nella modalità super-super-lavorato, cimentandosi oltre le proprie capacità. E’ fico farsi vedere appesi per un ora a provare un grado 8 (hai visto Jek...! Si sta provando un 8abc...).
A questo punto Jek è caduto nella trappola: è entrato in quel circolo vizioso che non gli permetterà più di migliorare.
Per tutta la vita dovrà ricorrere a sotterfugi per camuffare la propria incapacità.
Il miglioramento, invece, necessita di libertà.

Jek, scalando in quella modalità, sta facendo esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto fare per progredire.
Cosa avrebbe dovuto fare? Frequentare falesie nuove, provare e magari fallire su vie facili, a lui poco congeniali; essere disposto a appendersi sui 6a davanti a tutti, accettare le proprie debolezze per poterle sconfiggere.
Ma ormai paura e ansia da prestazione hanno preso il sopravvento. Non la paura fisiologica, quella che tutti gli scalatori hanno o dovrebbero avere, ma la paura irrazionale, quella che blocca, che accieca (letteralmente, non si vede più nemmeno il maniglione che si ha davanti al naso), che limita la prestazione.
La paura il più delle volte ci è amica, ma viene vissuta come una vergogna.
Se abbiamo paura di avere paura, è anche perché temiamo il giudizio degli altri o di noi stessi.

La paura ci rende deboli, poco intuitivi ma anche poco razionali, ci spinge ad affrettare ogni mossa per andare oltre, per passare al dopo, qualunque esso sia. La paura ci fa preferire la sconfitta, ci fa augurare la pioggia, la malattia, l’infortunio, purché ciò che stiamo vivendo finisca al più presto.
Non posso decidere di non avere più paura. Ma posso decidere di darle meno spazio e importanza.
Così come il tentativo vano di contrastare l’insonnia rema contro la corrente del sonno beato, così lo sforzo mentale costante e orgoglioso di dominare la paura e soprattutto di evitarla, in realtà ci indebolisce nei suoi confronti.

Perchè è così terribile essere criticati e giudicati mentre pratichiamo qualcosa che dovrebbe essere, per noi, soltanto una fonte di gioia?
Paure alimentate dalle aspettative che gli altri avrebbero su di noi, che i nostri genitori hanno su di noi, che noi stessi abbiamo su di noi.
Il primo tassello verso la soluzione è infischiarsene.


Infischiarcene se gli altri ci vedranno appesi su un 6a, smettere di essere così esigenti con noi stessi, smettere di investire tanta energia per contrastare un problema quando è chiaro che questa energia, in realtà, va ad accrescere il problema. La paura non va ignorata: va accolta.
La paura è un mostro che si nutre delle nostre attenzioni e quando smettiamo di lusingarla, presto si defila. È una donna (o un uomo) altezzosa che vive per stare al centro dell’attenzione.
Alla fine del film “via col vento”, Clark Gable capisce che deve accannare Vivian Leigh. Dopo anni passati a occuparsi di lei, rivolgendole tutte le attenzioni possibili, quello che ha ricevuto in cambio sono solo capricci e tormenti. Sono passate 4 ore di film quando lui, finalmente, la lascia. A quel punto lei, sconfortata, gli chiede:
“E ora che sarà di me”?
La risposta di Gable è memorabile:
“Frankly, my dear, I don't give a damn”.
Che tradotto al giorno d’oggi risulterebbe: “francamente, mia cara, non me ne frega un cazzo”.

Non riesco a passare su un 6c alle placche Woodstock di Cansla?
“Frankly, my dear, I don't give a damn”.

A questo punto scopro che non era la paura, in sé, che mi rovinava la scalata (o la vita), ma il continuo e inutile tentativo di contrastarla o di evitarla o di nasconderla.
È normale avere paura.
Dovrò nasconderla solo quando sono vicino a qualcuno che sta realmente in pericolo, allora la dovrò tenere dentro, per evitare che il contagio si propaghi, accendendo le polveri.
Alcune *Strategie* (non miracoli, che in questo campo non saranno mai possibili)
Superare la paura di cadere, o addirittura il panico che si presenta in situazioni del tutto protette (come una via di falesia con chiodi vicini, roccia solida e senza terrazze) è un compito arduo perché il pericolo immaginario può essere più terrificante di quello reale, e gli effetti di questo pericolo diventano più reali che mai e danneggiano la vita in modo reale.
Io credo che si possano ottenere risultati utilizzando strategie più ancora che “terapie”. E queste strategie consistono nei vari modi per cercare di smontare il circolo vizioso: ho paura - voglio il controllo - mi controllo - percepisco ancora di più i segnali fisici della paura - questi mi fanno paura - ho ancora più paura.
Come detto prima, alla base di tutte le strategie possibili, c’è il fatto di guardare in faccia questa nostra debolezza, senza disonore, che non dovrà più essere subita, ma utilizzata, e trasformata in coraggio.

Poi, non in questo ordine, ma parallelamente:
1) Esporsi gradualmente, in situazione sicura e controllata a ciò che temiamo: perché ogni volta che si evita, il problema aumenta, e aumenta la nostra sensazione di fallimento e quindi andrà sempre peggio. La rinuncia è un suicidio quotidiano. Questa esposizione dovrà essere anche virtuale - ideomotoria (immaginare di scalare in situazioni che provocano panico, indurre il panico per superarlo).
2) la strategia paradossale, sfidare la paura con la paura stessa: prima di partire far montare ancora di più il panico, pensando a situazioni reali e irreali. Stratagemma noto come “spegnere il fuoco aggiungendo legna”. Presto si raggiungerà il culmine, e poi sarà solo discesa.
3) ingannare la paura distogliendo l’attenzione dai segnali del terrore: per esempio scalando più veloci (se mi fermo penso, se penso mi ascolto e affiorano i fantasmi) o dandosi un compito da eseguire (per esempio scalare con l’obbligo di fare almeno 2 movimenti di piedi prima di muovere le mani, oppure non stare mai più di 4’’ con tutte e due le mani ferme bloccate sulle prese): come dice lo psicologo Nardone, riprendendo un antico trattato militare cinese - “i 36 stratagemmi” -, bisogna “solcare il mare all’insaputa del cielo”, autoingannare la propria mente distraendola con un altro compito.
Questo lavoro all’inizio va fatto con l’aiuto di un esperto; poi bisognerà proseguire da soli, perché cercare sempre il supporto di un compagno, amico o istruttore è una forma di evitamento: dovrò cominciare a emanciparmi, andare a scalare con persone meno brave di me, che non mi accudiscono come un bambino iper-protetto.
Piccoli miglioramenti porteranno a grandi miglioramenti. Perché mi daranno fiducia, la fiducia mi farà ascoltare meno il montare dei parametri fisiologici legati all’ansia, e il circolo vizioso si trasformerà in un circolo virtuoso.

Un bel giorno, non appena avrò terminato il mio nodo, e controllato il mio compagno, il mio ego si assopirà. Quando inizierà l’azione, avrò spento tutto: memoria, anticipazione, desideri, sensazione di essere giudicato - osservato - accettato.
Avrò dimenticato tutte le tecniche apprese, e fluiranno automaticamente, attraverso il corpo, senza la lenta mediazione del cervello.
L’azione non è ne bene ne male, ne giusta ne sbagliata.
La coscienza dell’io era uno dei maggiori ostacoli per l’esecuzione di una azione cosi viva e complessa come la scalata.
La mente che rifletteva su se stessa in ogni passaggio - “mmm questa presa l’altra volta la tenevo meglio...ora mi vedranno tribolare...”- era un fardello.

Non è la continua tensione verso il miglioramento che mi dona gioia ma, al contrario, è proprio quando la scalata diventa gioia che migliorerò.
Lo so. E’difficile. Molto più difficile che diventare forzuti.

Alessandro Jolly Lamberti

*Estratto dalla rubrica “Jollypower”, ogni due mesi in edicola su Up-Climbing, edizioni Versante Sud*

Commenti

Joy
Joy ∙ 2 anni fa

ZEN

Mi ricorda il randori in Aikido.... svuota la mente solo così diventi fluido e un tutt'uno con quanto ti circonda.
Grazie, gran bell'articolo!

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